Quarta edizione disponibile con dedica in esclusiva da Scubamarket



Figli di una... shamandura è giunto alla sua quarta edizione, con una nuova copertina, in una nuova veste interamente curata dall'autore. Disponibile su Scubamarket.

L'autore, Claudio Di Manao, si è occupato - stavolta personalmente - della stampa, della revisione dei contenuti, e dell'impaginazione, inclusa la scelta del font che, senza troppe acrobazie, risulta leggibile anche a chi non porta con sé in barca o in spiaggia gli occhiali da lettura.

Vista l'emergenza COVID, conferenze, letture, presentazione ed eventi cui l'autore avrebbe dovuto partecipare, sono state cancellate.
Scubamarket e l'autore hanno deciso di rendere Figli di una Shamandura autografato e/o con dedica personalizzata a tutti coloro che non hanno potuto partecipare agli eventi.


Richiedilo con dedica a Scubamarket, al prezzo di 10 Euro.


sogni abissali


Il voucher finì nelle mani di un tipo in divisa che lo confrontò con un registro. C’era ombra, sotto il gabbiotto ed il contrasto con la luce forte del mezzogiorno faceva sembrare la sua divisa d’un indefinito grigio ghiaccio. Mi indicò l’approdo e mi fece segno di prendere posto sul tender. L’ormeggio del Neptune era in mezzo alla baia. Il marinaio fece partire il fuoribordo ed il piccolo gommone scivolò ronzando sulle acque calme e trasparenti, un velo di cellophane teso sui pesci guizzanti. Il sole allo Zenith illuminava le teste di corallo e rimbalzando sulla sabbia bianca del fondo faceva sembrare l’intera baia una silenziosa, gigantesca piscina. Solo la nostra onda tenue muoveva quella fissità cristallina, irreale. Lo scafo del Neptune , un Perry Class PC-1203, brillava giallognolo in un punto in mezzo al mare. Era lo stesso che si vide nel film Abyss ed era giallo come nella canzone dei Beatles. Non ero mai stato in un batiscafo. Non avevo idea di quanto sarebbe andato profondo, ero lì per incassare un regalo. “Un viaggio indimenticabile, vedrai.” Così mi avevano detto. Il tender rallentò appruandosi appena e la lieve onda proseguì andando ad avvolgere la strana struttura di metallo, che non si mosse. Il marinaio mi fece cenno di afferrare una cima che penzolava ed ormeggiammo. Dopo qualche istante, poi si aprì un portello dalla sommità del batiscafo ed un tipo sbuffò per tirarsi fuori, come sbracciando da una torretta di un carro armato troppo stretta. Era il pilota. Mi strinse la mano e mi invitò a salire. Era un fotografo e alcune sue foto scattate in profondità erano finite sul National Geographic.



Il muso del Neptune si presentava come un gigantesco globo oculare di vetro temperato e acciaio. Visto di fronte ti dava l’idea di un modulo di Odissea nello Spazio. Scendere a 300 metri di profondità, è andare nello spazio. Mi calai dentro la strana torretta e presi posto davanti all’enorme lente, grande quasi un quarto dell’intera struttura. Da lì la barriera appariva lontana, come distorta da un gigantesco fisheye. Mi istruì subito sulle procedure di emergenza. Dubitai molto sulla possibilità di sopravvivere semplicemente respirando dagli erogatori di emergenza in caso di implosione o allagamento dello scafo e, onestamente, ne dubito ancora. Ma trovai gentile da parte sua darmi questa speranza. Come è gentile, da parte delle assistenti di volo illustrare cosa fare in caso di caduta delle maschere d’ossigeno, come gonfiare il salvagente, segnalare le uscite d’emergenza.
In quel punto, secondo il pilota, la parete raggiungeva i 2000 metri di profondità. Il reef quasi verticale continuava a scorrere verso l’alto, lentamente, distorto dall’enorme cristallo. L’aria all’interno s’era fatta umida e la discesa proseguiva in un silenzio teso, rotto dal respiro del pilota, dai i click dei comandi. I motori elettrici producevano un leggero sussurro, un rumore simile a quello di un minuscolo trapano. Il pilota, in piedi alle mie spalle, frugava la parete, dalle feritoie della torretta controllava la direzione.



Il Neptune scivolava lentamente, inesorabilmente verso l’abisso, verso un mondo che si affievoliva a poco a poco. In quel mezzogiorno tropicale a ottanta metri di profondità il mondo virava sull’indaco. Il pilota disse che spesso si incontravano squali tigre in quel punto. Non so se lo disse per intrattenermi o per spezzare il silenzio surreale che s’infittiva intorno alla sua concentrazione.
La barriera continuava a scivolare sempre più scura, crepuscolare. Le ampie falde divennero sempre più indefinite, le tinte, i contorni, s’amalgamavano. Verso i duecento metri  la parete sembrò assopirsi. C’era ancora quel minimo di luce che ti lasciava identificare la barriera, ma non i suoi dettagli. Il pilota imprecò contro la corrente. Stava mancando il punto. Gli chiesi ‘cosa’ stava mancando, ma lui non rispose. I ronzii e gli scatti dei comandi tagliavano il silenzio denso di tensione. Il pilota forse s’era perso, ma stava facendo di tutto per portare il Neptune di nuovo in rotta, verso un obiettivo che io non conoscevo. Si guardava intorno cercando disperatamente dei riferimenti attraverso gli oblò sulla torretta. Quelle finestrelle sull’abisso buio, almeno, non distorcevano. Scendemmo ancora e dal crepuscolo entrammo definitivamente nella notte. Notte fonda. Ormai tutto era nero. Oltre la superficie brillava il sole tropicale di un mezzogiorno scintillante, là sotto era così buio che mi sentii torpido, pronto a scivolare nel sonno.
“zzzzz – click-zzzz…” sentii che faticavo a tenere dritta la testa. Avrei voluto dormire. Perdermi in quel crepuscolo liquido, accogliente.



Il lampo improvviso dei fari fu come un risveglio. Davanti a me la barriera, e la poppa di un relitto. Era la poppa del Kirk Pride, un cargo affondato nel 1976. Fortunatamente senza portare nessuno con sé. Uno spirografo gigantesco cresceva sulle lamiere. Il relitto s’era adagiato tra due speroni della parete verticale. Sentii il pilota esultare per averlo trovato. Eravamo a quasi 300 metri di profondità, una quota dove nessuno dei subacquei che conoscevo era mai stato. Eravamo nella notte fonda, illuminata dai fari di quello strano insetto occhiuto in vetro e acciaio, un insetto dal ventre umido. Restammo in contemplazione di quel miracolo abissale. Il relitto s’era fermato proprio lì, su quelle sporgenze accoglienti e sembrava aspettare visite. Risalimmo con i fari accesi, scivolando lungo una parete fitta di coralli frusta lunghissimi e bianchi, bianchi come tutte le creature che non conoscono la luce. Non ne avevo mai visti così tanti, né così bianchi. Il pilota chiamava quel luogo la foresta degli spaghetti. Gli feci subito notare che i veri spaghetti non erano bianchicci come i ‘mueller’ che trovavi da Kirkonnel’s il supermercato di Georgetown, ma color del grano. Mi rispose ridendo che da quel momento in poi l’avrebbe chiamata la foresta dei noodles, non più degli spaghetti. Non so se abbia mantenuto la promessa.

Risalimmo verso il viola, poi l’indaco e l’azzurro, verso la luce, verso il colore, e fu come risvegliarsi da un sogno, con gli occhi aperti su di un nuovo giorno. In poco più di due ore avevo vissuto il crepuscolo, la notte e poi ancora l’alba. Il sole ancora alto scintillava sul cellophane delle acque apparentemente immobili. Due ore sembravano un giorno intero, un giorno della mia vita rubato alla stretta del tempo. Al porto mi consegnarono un attestato, con data ora e profondità, che ancora non manco di esibire sorridendo a subacquei spacconi. Il mare quel giorno sembrò ai miei occhi uno scrigno di sogni. Mai come quel giorno lo vidi così palesemente simile alla parte più segreta della nostra mente.
L’inconscio.

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Questo racconto è tratto da:
Caraibi, racconti dalle indie ‘accidentali’
2014 © Claudio Di Manao
L’edizione cartacea, 2009 Magenes Editoriale, è acquistabile in libreria e da:
ScubaShop 

I diritti d'autore dell'edizione digitale, rivisitata e aggiornata con nuovi racconti, sono versati in beneficenza a favore di Nina.

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http://inviaggioconnina.blogspot.com/

la recensione della libreria fernandez


Un libro cult: viaggio umoristico, a volte dissacrante, nella realtà del luogo più frequentato dai sub di tutto il mondo. La shamandura in Mar Rosso è il corpo morto a cui si ormeggiano le imbarcazioni per evitare di devastare la barriera corallina. Ma a Sharm el-Sheikh la shamandura è molto di più: è una filosofia di vita che nasce da un mix di acqua, azoto e birra...
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